Dal canone Rai per chi ha un pc all'equo compenso,
passando per la banda larga e la scuola, ecco perché siamo il fanalino di coda
per innovazione e alfabetizzazione digitale.
Agenda
digitale, rilancio
dell'economia, investimenti per far ripartire le imprese, tante belle parole su
banda larga e alfabetizzazione digitale.
Parole,
appunto. Perché la realtà è un'altra: siamo il fanalino di coda per innovazione
e uso della tecnologia.
A marzo il
34% degli italiani non aveva mai usato internet (contro l'8% del Regno unito).
Ormai nel
95% del territorio è possibile connettersi a una velocità considerata
sufficiente, ma appena la metà delle famiglie paga un abbonamento. Certo, gli
smartphone sono ormai diffusi, ma forse sono più uno status symbol che uno
strumento utilizzato nelle sue piene potenzialità. E se questo non bastasse
nella scelta della scuola gli istituti tecnici hanno ancora una pessima fama e
sono considerati più un posto verso cui indirizzare i meno volenterosi che un
volano per una nuova manodopera iperspecializzata che faccia da volano all'industria.
E in questo
scenario - che per fortuna vede anche qualche piccolo polo di eccellenza - il
governo che fa? Parla bene e razzola male. A parole mette l'agenda digitale al
centro del proprio programma, promette semplificazione e meno scartoffie, ma
"punisce" chi ha dispositivi tecnologici. Pensiamo al cosiddetto equo
compenso: basta avere un qualsiasi supporto di memoria digitale per
diventare dei pericolosi criminali pronti a piratare contenuti coperti da
copyright. Sì, lo sappiamo: la norma parla di "copia privata",
perfettamente legale se si è acquistato ad esempio l'ultimo album del nostro
cantante preferito. Ma la tassa resta una sorta di pena preventiva per un reato
che non è affatto detto che commetteremo. Lo dice pure il ministero in uno studio
commissionato prima che Franceschini firmasse il decreto: solo 13 italiani su
100 preferiscono salvare su un secondo dispositivo libri, cd, dvd e
quant'altro.
Ma in questo
caso i consumatori non dovrebbero preoccuparsi più di tanto: con tutta probabilità l'aumento delle tariffe ricadrà sui
produttori. Non tanto sui grandi - cosa vuoi che siano per Apple 4
euro a telefono - quanto sulle piccole imprese e sull'indotto per un totale di
157 milioni di euro all'anno rispetto ai 63 versati nel 2013 nelle casse
della Siae. Quasi un quarto di quello raccolto nell'intera Europa
(600 milioni), anche considerando che in alcuni Paesi le tariffe sono ben
superiori.
E sempre
sulla pelle delle imprese vuole far cassa pure la Rai. La loro colpa? Possedere un pc (ma trovateci un qualsiasi
titolare di partita Iva che oggi non abbia almeno un computer intestato). Anche
in questo caso si può parlare di "pena preventiva": solo per il fatto
che il dispositivo può essere usato per trasmettere i programmi Rai, deve
pagare il canone al pari, per intenderci, di bar e ristoranti che hanno in sala
un televisore. Una mossa che un paio d'anni fa era
stata tentata - e subito bloccata - anche per i privati.
E non
dimentichiamo la famigerata Google Tax, che
costringerebbe i colossi dell'informatica ad avere una partita Iva italiana
e che con tutta probabilità limiterebbe gli investimenti nel nostro Paese.
Insomma,
sembrerebbe che questo non sia affatto un Paese per la tecnologia. Del resto,
ci ritroviamo come ministro della Cultura quel Dario Franceschini che al
Ceo di Google che "bacchettava" l'Italia perché non spinge i ragazzi
a studiare informatica e "non forma persone adatte al nuovo mondo" ha
risposto: "In ogni Paese ci sono vocazioni_ magari un ragazzo italiano
sa meno di informatica ma più di storia medievale e nel mondo questo può essere
apprezzato. Un ragazzo italiano ad esempio potrà andare negli USA a insegnare
storia medievale e uno americano potrà venire qui a insegnare informatica".
E pensare che, come ricorda il giornalista Rai Michele Mezza nel suo
"Avevamo la luna", tra il 1962 e il 1964
l'Italia aveva la possibilità di dettare legge nel mondo per quanto riguarda la
tecnologia.
di Clarissa Gigante (Giornale)