Il motore di ricerca si piega alla Corte europea e
mette on line un modulo per chiedere di fare sparire i link su notizie
circolate per sbaglio, foto osé, errori di gioventù. Ma è polemica.
Forse non
tutti sanno che le sue origini risalgono agli anni Cinquanta. A quell'epoca
circolava un lungometraggio in cui si narrava la storia di Pietro Caruso,
ultimo questore di Roma dell'epoca fascista, condannato alla pena capitale.
Nel film si
faceva cenno al coinvolgimento di Caruso nella stesura della lista dell'eccidio
delle Fosse Ardeatine. Episodio ritenuto non completamente veritiero dalla
vedova del questore che, ricorsa in giudizio, dopo tre gradi (Tribunale, Corte
d'Appello e Cassazione) ottenne, appunto a metà degli anni Cinquanta, che il
defunto marito fosse «dimenticato» riguardo quell'evento storico.
Nasceva il
diritto all'oblio (di cui si è parlato l'altro ieri durante un convegno
organizzato dallo Studio Legale Munari Cavani, relatori gli avvocati Alessandro
Munari e Alessandra Fossati, all'Istituto Cinematografico «Michelangelo
Antonioni» di Busto Arsizio). Quello che oggi è tradizionalmente legato al
mondo della rete. Dalla quale arriva una grande novità: da un paio di
giorni, infatti, Google (il principale motore di ricerca) permette a chiunque
(in ossequio della storica sentenza della Corte di Giustizia del 13 maggio
scorso secondo la quale il motore di ricerca è responsabile del trattamento dei
dati sensibili anche se i contenuti sono di fatto pubblicati da altri) di
chiedere la rimozione dei link ritenuti lesivi attraverso un modulo online. Un
esempio: una persona, che chiameremo M., assiste ad una rapina e viene
interrogata dalle forze dell'ordine come soggetto informato sui fatti. M.
potrebbe finire, con tanto di foto, sui giornali ed essere indicato come
probabile complice. A distanza di anni digitando il proprio nome su Google, M.
trova gli articoli che raccontano la vicenda: Internet non dimentica e la
reputazione del signore in questione risulta indelebilmente macchiata.
Fino a
qualche giorno fa M. aveva una sola soluzione: contattare un avvocato e,
attreverso il legale, chiedere alla testata (peraltro a tutt'oggi obbligata a
procedere ad un aggiornamento della notizia e, dunque, dare conto
dell'estraneità del soggetto citato) di aggiungere una rettifica e rimuovere
l'articolo dall'indicizzazione dei motori di ricerca. Una procedura lunga e
costosa che scoraggerebbe chiunque. Ora però c'è un'altra opzione. Almeno
in Europa: il colosso di Internet deve assicurarsi che nessuno possa
rintracciare informazioni lesive della privacy di qualcuno, mentre i contenuti
a cui rimandano (articoli di giornale, foto, video, eccetera) possono rimanere
online. Ecco quindi che da Mountain View hanno predisposto un modulo
attraverso il quale i cittadini europei possono richiedere la rimozione di link
dai risultati di ricerca. Il funzionamento è semplice, anche se arrivare al
formulario è piuttosto macchinoso. Bisogna fare così: digitare l'indirizzo
«http://support.google.com/legal», scegliere la voce «Ricerca Google», poi
cliccare su «Vorrei rimuovere le mie informazioni personali dai risultati di
ricerca di Google» e infine su «Vorrei richiedere la rimozione di alcuni
contenuti che mi riguardano e che vengono visualizzati nei risultati di ricerca
di Google in violazione delle leggi sulla privacy europee». Finalmente la guida
ci darà il link al modulo agognato (cliccare sull'ultimo «qui»). A questo punto
basta seguire le istruzioni. Al tutto è necessario la copia di un documento di
identità, passaggio necessario onde evitare che qualcuno possa chiedere la cancellazione
del link al posto di un altro.
La rimozione
non sarà automatica: data la complessità dell'argomento, ad esaminare la
richiesta sarà lo staff di Google che promette di bilanciare il più possibile
«il diritto alla privacy con quello all'informazione». «Stiamo creando un
comitato consultivo di esperti che analizzi attentamente questi temi», spiegano
da Mountain View, «Inoltre, nell'implementare questa decisione coopereremo con
i garanti della privacy ed altre autorità». Saranno cancellati quindi solo i
link che «includono informazioni obsolete» e quelli che non hanno «informazioni
di interesse pubblico». Resteranno indicizzati invece i contenuti che, ad
esempio, «riguardano frodi finanziarie, negligenza professionale, condanne
penali o la condotta pubblica di funzionari statali». Alla procedura non
sono mancate le critiche, a partire da quelle mosse dalla stessa Google e da
altre società del web preoccupate dall'eventuale limitazione delle libertà di
espressione e di informazione. L'amministratore delegato e co-fondatore Larry
Page dice chiaramente che la sentenza potrà essere sfruttata «da regimi
repressivi ed autoritari, per cancellare informazioni utili ai cyber
dissidenti».
di Clarissa Gigante (Giornale)